La scomparsa di Stelio Spadaro, idealista e sognatore

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di Ezio Giuricin

“Confesso che ho vissuto”. Stelio Spadaro, prima di lasciarci per sempre, avrebbe voluto probabilmente salutarci con questo motto, poi diventato il titolo di una delle principali opere postume del grande poeta cileno Pablo Neruda.

Idealista e sognatore, fautore di un’idea profondamente “umanista” e democratica della sinistra, acuto riformatore, instancabile fautore del dialogo e della conciliazione fra le diverse componenti culturali e politiche della società italiana, e in particolare del mondo giuliano e istriano, attraversato da profonde lacerazioni storiche, Stelio Spadaro con le sue opere e a sua azione ci ha confessato, appunto, la dimensione del suo impegno civile, la coerenza e il valore delle idee spesi nel corso della sua esistenza.

Ascoltando i suoi interlocutori, durante i frequenti e intensi dibattiti con le persone che stimava di più, aggrottava le sopracciglia e chiudeva gli occhi per riflettere meglio su quanto si andava dicendo, per sistemare e introiettare i concetti e le idee, cercare di capire la realtà e i problemi, sempre più complessi, del nostro presente. Ma quel suo stendere il palmo della mano, fra indice e pollice, quasi a formare una tesa ideale sulla fronte, oppure lo stringere il pugno sotto il mento – una “posa” spontanea e naturale da vecchio saggio istriano che però in noi evocava la figura ben più solenne del “pensatore” di Rodin – in effetti rivelava un altro segreto: Stelio, pur ascoltandoci, guardava avanti, immaginava il futuro, costruiva nuovi percorsi e scenari.

Come tutti gli idealisti e i pensatori, senza mai rinnegare il qui ed ora, senza mai rinunciare al valore dell’ascolto e della condivisione, era, contemporaneamente “altrove”. Ciò gli permetteva di “volare” con i suoi pensieri, di non rimanere mai schiacciato a terra, di scrutare orizzonti più vasti.

Orizzonti che gli permisero di sondare nuovi sentieri per la sinistra italiana e giuliana, di precorrere i tempi, di promuovere e verificare degli inesplorati percorsi di riforma politica e di anticipazione culturale, di concepire dei coraggiosi progetti di dialogo, di riconciliazione, di ricomposizione.

Fu certamente un precursore in campo politico, culturale e civile: come non ricordare il suo coraggioso spendersi per i cambiamenti epocali all’interno della sinistra giuliana e italiana, la difficile transizione dal PCI al PDS e poi dai DS al PD, per la scesa in campo, nel 1993 a Trieste, di Riccardo Illy, per l’incontro Fini-Violante del 1998, segno della sua straordinaria visione della necessità di un processo di riconciliazione nazionale, e del superamento delle contrapposizioni politiche e delle divisioni ideologiche del passato, la sua condanna dei silenzi e delle reticenze della sinistra comunista nei confronti del tema delle foibe e dell’esodo, il suo impegno volto a riflettere criticamente sulle complesse vicende della Resistenza in queste terre, sull’aspra contesa per i confini, la sua volontà di rivalutare il ruolo dell’antifascismo democratico e patriottico, del patriottismo democratico del corpo “Volontari per la Libertà”, il suo riflettere sul significato degli antagonismi nazionali, sui valori di un’Istria e di un Adriatico orientale che egli amava concepire nella ricchezza della loro “pluralità” culturale e nazionale.

Come non ricordare la sua lettera aperta dei primi anni Duemila al Presidente Ciampi, in cui Spadaro, citandoFernand Braudel, il grande storico francese delle Annales, rilevava che “nella storia c’è un Italia tirrenica e un’Italia adriatica, lungo quell’arco che va da Trieste alle coste dalmate, passando per le isole del Quarnero. A tale regione, etnicamente plurale – affermava Spadaro – gli italiani della costa nord orientale hanno dato nei secoli un essenziale, originale contributo. L’Italia, la patria, per loro è sempre stata qualcosa di diverso: un antico, naturale riferimento al mondo e alla lingua di Venezia; una scelta o un’aspirazione, o una prepotenza affermata o subita; o una protezione, o un tormento. Dopo la seconda guerra mondiale la Venezia Giulia fu radicalmente sconvolta – scriveva Spadaro a Ciampi – e fu scardinato il mondo degli istriani, fiumani e dalmati di lingua italiana, quello degli esuli e quello dei rimasti. Quella civiltà fu scardinata perché considerata dagli ambienti nazionalistici croati e sloveni, abusiva, artificiale, costituita essenzialmente o da sparuti discendenti di antichi veneti o da immigrati, che, con l’esodo, a cui tanti istriani furono costretti, sarebbero tornati a casa loro, come dalla Libia o da Rodi.

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Ma non è così: quella regione strutturalmente plurale, è stata ed è ancora, nonostante le terribili semplificazioni etniche, casa comune di italiani, sloveni e croati che i nazionalismi da più parti e ripetutamente hanno inteso minare, distruggere, negare.

Su tali vicende a lungo ci fu un silenzio imbarazzato della Repubblica e le tradizioni di quella civiltà furono affidate soltanto alle istituzioni che gli esuli istriani ebbero la forza di costruire e a quelle poche, che i “rimasti” riuscirono a fatica a mantenere in vita, lungo una traversata di decenni. E fu una traversata burrascosa, intrisa di ostilità e indifferenze, o strumentali sopportazioni, in cui regime comunista e nazionalismo s’intrecciarono in una convergente opera di repressione. Ora – proseguiva Spadaro – si può ben comprendere la storia di quel popolo e inserirla nella storia d’Europa, di un’Europa che si apre al mondo e che ha bisogno di richiamarsi a tutti gli apporti e tradizioni.

Spetta alla Repubblica riprendere in chiave non nazionalistica l’apporto che viene da questa tradizione e compiere una riflessione su quel capitolo originale e complesso della nostra identità nazionale che è dato da questi italiani della costa nord orientale.

Oggi, nell’Europa che viene – concludeva Spadaro – abbiamo la possibilità di riflettere su questo mondo per capirne il valore; in un Adriatico oggi aperto, in cui è possibile fruire appieno della memoria di secolari interazioni, è utile e possibile una riflessione complessiva, da questo punto di vista, sui tratti della civiltà del popolo giuliano, fiumano e dalmata di lingua italiana, nella sua unità e nelle sue articolazioni….”.

Stelio Spadaro ci lascia le sue idee, i suoi scritti, le sue opere: gli insegnamenti e i messaggi contenuti nei saggi ”L’altra questione di Trieste”, l’”Europeismo nella cultura giuliana”, l’”Ultimo colpo di bora”. Ci lascia soprattutto l’esempio di un uomo che la storia – la storia difficile e pregna di sconvolgimenti di queste terre di confine – non aveva fermato, non aveva condannato alla rassegnazione.

“Riflettere sull’identità degli italiani dell’Adriatico orientale – affermava Spadaro qualche anno fa – non significa nostalgia per un passato di grandezze, ma pensare al futuro.”

Stelio Spadaro fu un grande amico della comunità italiana, del mondo dei “rimasti”. Ricordiamo i suoi appuntamenti e le conferenze stampa al “Tommaseo” di Trieste con l’onorevole Furio Radin, il suo costante e frenetico interrogarsi sui problemi e il destino della nostra minoranza, i suoi contatti, quasi quotidiani, con gli esponenti del gruppo nazionale per cercare di conoscere, capire i dilemmi, gli interrogativi, le istanze di una comunità rimasta per troppo tempo “sola”, negletta, ignorata.

Per lui era diventata una questione di “onore” e di riscatto: cercare di restituire al patrimonio collettivo della Nazione, al corpo sociale e civile dell’Italia, l’identità e la presenza viva degli italiani dell’Adriatico orientale.

Da uomo profondamente legato a queste nostre terre, da vecchio isolano aveva scommesso sulla redenzione di una generazione lacerata e sconvolta dalla storia. Ci ha insegnato a sognare e a sperare contribuendo a scrivere capitoli nuovi, esplorando altri percorsi per i nostri figli.

 

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