Giovanni Bellucci realizza per il Circolo Istria un importante progetto di Ritorno Culturale attraverso la musica

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di Rosanna Turcinovich Giuricin

Nell’ambito del progetto di “RITORNO CULTURALE” il Circolo di cultura istro-veneta Istria ha proposto il 23 dicembre alle ore 19 in collaborazione con la Comunità degli Italiani di Fiume la proiezione della prima puntata di una serie dedicata al grande musicista istriano Luigi Dallapiccola al quale sono dedicate le scuole di musica dell’Istria e di Fiume.

Nell’ambito dell’incontro-seminario si è svolta la presentazione del materiale didattico digitale, ovvero la proiezione del video intitolato “IL QUADERNO MUSICALE DI GIOVANNI BELLUCCI – da Beethoven a Dallapiccola, cinque appuntamenti con il pianoforte e la sua fenomenologia”.
L’incontro rappresenta una prima fase del progetto di “Ritorno culturale” che il Circolo Istria sviluppa in vari ambiti, anche quello musicale.
Giovanni Bellucci, pianista di fama mondiale, ha interpretato la musica di Dallapiccola sin dagli anni giovanili, continuando ad esplorarne il valore e la grandezza nel corso del tempo. Ma ciò che affronta nel suo Seminario in cinque puntate, è una riflessione sul rapporto tra Dallapiccola e la storia della grande musica. Cosa c’è all’origine della sua produzione? La prima lezione parte dall’Ulisse, simbolo dell’eterna ricerca, l’esule per eccellenza, e si sviluppa attraverso alcuni tempi fondamentali: Simbolo, Ritmi, Contrappunto, Colore, Fregi in un crescendo entusiasmante.
Il seminario è rivolto al vasto pubblico, di ogni età, ed in particolare ai giovani allievi della scuola che del musicista istriano porta il nome.
Bellucci è un interprete di chiara fama dell’opera beethoveniana, numerose le incisioni che ne testimoniano l’alto livello raggiunto ma soprattutto l’originalità e la capacità di innovare attraverso una lettura analitica dell’opera primigenia.
Lo scopriamo in questa intervista – realizzata per la rivista Eccellenza – esplorando il suo rapporto con il genio di Beethoven.

Vogliamo partire da un aneddoto? Giovanni Bellucci sorride, ne ha tanti nel cassetto di quel mosaico che è la sua carriera di pianista di fama mondiale. Ne sceglie uno a caso, o forse no. L’abbiamo visto calcare il palcoscenico da grande virtuoso ma anche rapportarsi col pubblico con una complicità rara… mani capaci di scatenare fuochi d’artificio e un’empatia che stordisce.

“Chi come me svolge l’attività del concertista non ha la consuetudine a relazionarsi umanamente col prossimo, tanto meno con i giovanissimi. I concerti, salvo eccezioni, sono destinati ad un pubblico adulto, eppure nelle occasioni in cui mi è capitato di fare degli incontri divulgativi con bambini d’età prescolare – che sono estremamente diretti, radicali nel focalizzare le situazioni – mi hanno posto delle domande rivelatrici. Un ragazzino mi chiese perché insistevo a suonare Beethoven, perché avevo scelto la sua musica: lo diceva affascinato dal grancoda che vedeva probabilmente per la prima volta da vicino: il pianoforte gli sembrava un oggetto alieno. Cosa rispondi a una curiosità come questa? E’ chiaro che noi adulti molte cose le diamo per scontate, chi va a teatro conosce Shakespeare, se sei un musicista ti confronti con Beethoven.

Che cosa gli ha risposto?

“Che senza Beethoven la musica non sarebbe stata la stessa. Che il mondo sarebbe stato diverso senza il suo genio. Che i geni aprono nuove prospettive. Che in effetti quel bimbo aveva fatto una domanda così semplice eppure così difficile. Innanzitutto quando una persona inizia a suonare tende a prendere spunto da un personaggio mitico, qualcuno che, mi si passi la metafora sportiva, ha battuto un record. E chi più di Beethoven, un sordo capace di comporre musica meravigliosa”.

I contemporanei avevano riconosciuto la grandezza dell’autore di Bonn?

“Non tutti, paradossalmente – ma forse non tanto, riflettendoci – erano alcuni musicisti stessi a fraintenderne l’arte, o ad opporsi alle sue innovazioni. Credo che l’attrito tra i conformisti e gli innovatori sia però stato proficuo per rafforzare gli slanci creativi di Beethoven: per apprezzare il genio si deve metterlo al centro della società, della quotidianità, metterlo anche in discussione. Ma siamo capaci di farlo, di capire dove alberghi la genialità? Potevo prevedere quale di quei bambini della classe che avevo di fronte sarebbe diventato un riferimento per il mondo di domani? No, certamente, ma proposi ai ragazzi di evitare ogni superficialità nell’ascolto e nell’osservazione delle proprie istanze creative, e di prestare attenzione ai talenti degli amici e dei compagni di studi.

Ci furono conseguenze?

Al momento, preso da altre incombenze dimenticai l’accaduto, finché, qualche giorno dopo il preside della scolaresca mi fece contattare per riferirmi che gli alunni si erano trasformati in tanti piccoli Sherlock Holmes, e organizzavano delle gare di talento, di sport, di scrittura, di disegno, di canto, per mettersi alla prova fra di loro e verificare il loro grado di… genialità! Insomma il professore confessò di non aver mai assistito ad un tale fermento. Involontariamente, attraverso la musica – ma anche il dato biografico – di Beethoven avevo fatto scattare la molla per cui indagare il passato significa usare la stessa curiosità verso il presente”.

Un compositore che crea valori…

“Assolutamente si. Ciò che non può essere frainteso nell’opera di Beethoven è il suo rifiuto dell’eroismo inteso come superomismo. Compose la sua più monumentale sinfonia, la Terza, in omaggio a Napoleone Bonaparte, “colui che” – citando Hegel – “cavalca lo spirito del mondo”, fin quando il francese si autoproclamò imperatore. A quel punto, deluso dal suo beniamino, cancellò la dedica sul frontespizio del manoscritto della partitura in modo tanto rabbioso da bucare il foglio. Beethoven si posizionava all’opposto rispetto all’ideologia pragmatica che la nostra società propone continuamente come viatico per il successo nella vita”.

E quindi che cosa significa suonare oggi la sua musica?

“Immergersi nella purezza delle intenzioni, qualcosa di totalmente sconosciuto in questo presente. Il suo slancio era disinteressato, non percorreva le vie più facili, i suoi format non si ripetevano mai, pur avendo avuto successo doveva necessariamente ripartire, rigenerarsi. E le motivazioni sono importantissime nella creatività. Le trovava dentro di se ma anche reagendo all’insoddisfazione. Le sue opere più gioiose, ottimistiche, sono quelle composte, come la Seconda Sinfonia, nel periodo in cui era depresso fino a manifestare l’idea del suicidio attraverso una lettera, del 1802, indirizzata ai suoi fratelli, passata alla storia come il Testamento di Heiligenstadt”.

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E’ questa l’arte, è catarsi?

“L’arte non è necessariamente la rappresentazione del mondo, né soltanto la mera descrizione della momentanea condizione interiore dell’artista, a volte può essere la scialuppa di salvataggio dell’essere umano, che mette in salvo se stesso – e l’umanità che lo ascolta – da qualcosa di minaccioso, di negativo, di plumbeo”.

Cosa significa oggi suonare Beethoven?

“Poter scegliere attraverso il ricco catalogo delle sue opere, diversissime tra loro, quelle che possono adeguarsi alle caratteristiche innate dell’esecutore, che possono dar voce al sentimento e alla passione individuale. La sua tecnica compositiva è imperscrutabile, una manifestazione della sfera irrazionale ai limiti della disinibizione ma al tempo stesso innervata da relazioni simmetriche fra gli elementi, fra i formanti espressivi. Beethoven è un compositore coerentissimo se lo si osserva a livello “atomico”, ma è anche il più emotivamente coinvolto. Citando Cioran, un celebre filosofo, “egli ha introdotto gli sbalzi di umore nella musica”. Sono autentici schiaffi dati all’ascoltatore al quale dice “svegliati!”. Penso alla Sinfonia numero 5, al sintetico incipit tematico definito dall’Autore come la rappresentazione del “destino che bussa alla porta”. Beethoven non vuole spaventarci, ma piuttosto cerca di invitarci a stare pronti, come si dice oggi “a stare sempre sul pezzo”, mai accondiscendenti, mai impreparati, mai domi. L’ascoltatore – o lo spettatore – per Beethoven non deve essere passivo, è un corpo vibrante, è il diapason che viene sollecitato da quelle vibrazioni, da quelle intenzioni”.

Innovare, crescere, spesso lei ama proporre il connubio tra parola e musica. Cosa significa raccontare la musica?

“Se ci si attende dall’interprete una performance ‘burocratica’, tipo quella di un ipotetico attore che dovesse leggere un testo shakespeariano con la voce monotona e piatta come quella di un computer, allora io non sono in grado di soddisfare questa aspettativa. L’assenza di educazione specificamente musicale a livello di scuola dell’obbligo non è stata mai sufficientemente denunciata, ma ormai è argomento vecchio… Certo, lo studio approfondito del linguaggio musicale, dell’armonia, del contrappunto, richiede tempi biblici. Molto più comodo affidare il compito “creativo” ad un software informatico. Comunque dare informazioni sia dal punto di vista storico, quindi attraverso la contestualizzazione delle opere che si eseguono in pubblico, ma anche dal punto di vista della trasmissione della propria esperienza di studio, può essere molto interessante. La parola, tra l’altro, è stata abbondantemente usata da artisti come Franz Liszt, il cui epistolario è vastissimo e appassionante alla lettura. Grazie a questi carteggi oggi conosciamo più a fondo questi grandi personaggi. Forse l’interprete non deve soltanto saper eseguire un pezzo, bensì provare a riunire i tasselli di un puzzle infinito, deve cercare di chiarire il significato di una cosa oscura e luminosa come la musica, o di chiarire elementi che nella partitura non sono manifesti: e far recepire tutto ciò al pubblico. Persone che mi conoscevano solo per i miei concerti, si sono meravigliate sentendomi parlare con entusiasmo degli autori, ma lo stesso Liszt era un entusiasta ed era noto per la sua affabilità e arguzia nell’eloquio: disturbato dal sovrano che chiacchierava nel bel mezzo di un suo prestigioso récital presso la corte russa, Liszt s’interruppe e – con aristocratica diplomazia – gli si rivolse dicendo: “quando lo Zar parla anche la musica deve tacere”.

Per secoli la musica finiva con il concerto, niente incisioni discografiche. La tecnologia ha stravolto questa situazione: cosa ne avrebbe pensato Beethoven?

“Non credo sarebbe stato contrario all’avvento della tecnologia di cui oggi ci serviamo, perché egli amava innovare. Ma la tecnologia, seppur galoppando con decisione verso il cambiamento delle nostre abitudini, non potrà mai surrogare la genialità delle creazioni beethoveniane, che propongono agli ascoltatori e agli interpreti una moltitudine di momenti trasgressivi rispetto alle regole. Qeste deviazioni rispetto a un percorso prevedibile, tali elementi irrazionali, non potranno mai essere considerati dei protocolli, dei procedimenti da clonare per produrre in serie opere altrettanto coinvolgenti e interessanti mediante l’ausilio dei computer.

Come definirebbe il vostro rapporto, che appare così intimo e forte?

“Indendiamoci, Beethoven continuerà dove io finirò, semplice suddito della sua immaginazione, che opera al servizio di una musica che passa si attraverso di me ma anche attraverso tanti altri valenti interpreti. Beethoven è una fonte inesauribile alla quale tanta gente attinge. E’ morto in povertà chiedendo un anticipo di 100 sterline su una sinfonia commissionatagli dalla Società Filarmonica di Londra, soldi arrivati troppo tardi… Noi tutti dovremmo sentire una forma di riconoscenza, una forma di dipendenza quasi filiale, nei suoi confronti. L’esecutore è una specie di demiurgo, deve far vivere la lettera morta che è la partitura, non dovrebbe proporre spettacoli, ma far viaggiare gli ascoltatori verso un luogo privilegiato… Un pianeta, ecco il luogo, immaginiamo di provenire, noi musicisti, dal pianeta Beethoven, e facciamo in modo che tutti abbiano voglia di visitare questo pianeta, non dico traslocare per viverci tutta l’esistenza umana, ma almeno trascorrervi dei momenti speciali. Non perdiamo di vista la consapevolezza che c’è qualcosa di lui nelle nostre vite e nel nostro modo di pensare, come c’è qualcosa di Dante Alighieri, di Michelangelo, di Shakespeare, di Leonardo da Vinci, del Palladio”.

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